Di Mariagrazia Villa
La macellazione del maiale segue regole antichissime, che si perdono nella notte dei tempi. La storia stessa del suino procede in parallelo con quella dell’uomo: il maiale era una presenza domestica già nella Grecia classica e presso gli antichi Romani. La prima descrizione di un pasto basato esclusivamente su carne di maiale si ritrova nell’Odissea. E pare che il termine “maiale” derivi direttamente dal nome di Maia, la più bella delle mitiche Pleiadi, amata da Zeus e madre di Mercurio, la dea che impersonava a Roma il risveglio della natura in primavera e simboleggiava l’abbondanza (da qui deriva, dal XVIII secolo, la tradizione dei salvadanai a forma di porcellino, utilizzati di solito dai bambini): a lei veniva annualmente sacrificato un porco grasso (porcus pinguis o sus maialis).
Nella cultura popolare, fino alle soglie della civiltà industriale, l’esperto che sovrintendeva all’abbattimento familiare del maiale (la cosiddetta “maialatura”) e alla lavorazione delle carni suine ha sempre goduto di grande considerazione. Tale persona competente veniva chiamata “norcino” dalla località di Norcia, in Umbria, da dove in origine partivano questi lavoratori nella stagione invernale, per andare in tutta Italia a macellare il maiale e a lavorarne le carni, benché nelle varie regioni italiane lo specialista di tali tecniche venisse poi chiamato nei modi propri dei diversi dialetti: nel Parmense, per esempio, era detto masén o maslén.
Le rituali operazioni di norcineria avvenivano nella stagione fredda, in genere tra novembre e febbraio. Ogni data era buona, con un’unica eccezione: il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate, protettore dei maiali e degli animali domestici in genere, il cui culto è ancor oggi molto diffuso nelle campagne.
Come si vede nel film “Novecento” del regista parmigiano Bernardo Bertolucci, il norcino, indossando il tipico mantello lungo e scuro (tabarro), si recava a casa del proprietario del maiale, munito della sporta con gli arnesi di lavoro: stiletto (coradòr), coltelli, mannaia, raschietti, uncini. Nella nostra zona, l’uccisione avveniva di solito mediante una fulminea stilettata al cuore, perché l’animale morisse subito e la sua sofferenza non si protraesse inutilmente, altrove invece con la recisione della giugulare. Alcuni utensili, come il rampone per catturare il maiale, la mezzaluna, gli imbuti o la più tarda macchina tritacarne-insaccatrice per la confezione dei salami, potevano indifferentemente appartenere alla dotazione del norcino ambulante, che si spostava con i suoi attrezzi di famiglia in famiglia, di casale in casale, o essere reperiti sul posto.
Ogni casa rurale aveva la sua fornacella (fogón), per scaldare nei paioli di rame l’acqua necessaria alla spellatura del maiale e la forca cui s’appendeva l’animale una volta spellato, per aprirlo e dividerlo in mezzene. Altri attrezzi, invece, potevano essere patrimonio comune di più famiglie, che li usavano collettivamente, ogni anno, in occasione dell’antico rito pagano dell’uccisione del maiale.