«Né te, Parma gentil, in un cantone
Deggio lasciar, cui celebrar cotanto
Arrigo, Sansovin, Livio, e Strabone.
Me la perdoni quel famoso, e santo
Della natura imitator Correggio,
Se lo passo in silenzio in questo Canto;
La gloria sua, la tua grandezza io veggio,
Ma questa volta, alma Cittade eletta,
Tentar di lode altro cammino io deggio;
Che la mia rima è a celebrar costretta
Del mio Campione (Il porco) altro novel portento
Tua Bondiola ammiranda, e tua Spalletta».
Giuseppe Ferrari, Gli elogi del porco, Modena, 1761.
Giuseppe Maria Callegari (1785-1829), poeta dialettale parmigiano, nella novella El matrimoni del dotteur Fava, composta nel 1818, immagina di svegliarsi di soprassalto destato dal famoso poeta Angelo Mazza da poco defunto, che gli si rivolge in questi termini:
«Col ch’j’ho ditt teint a memoria
Ch’a m’intorn a la me gloria;
Callegari buona nota,
M’j’a ch’a vaga, m’j’a ch’a trota,
Chi m’aspetten in Paradis
A magnar na bomba d’ris,
Quatter fetti d’culatel
Con San Peder e San Michel…».
Giuseppe Callegari, Poesie edite e inedite in dialetto parmigiano, a cura di Armando Marchi, Parma, Step, 1985, p. 134.
Una lunga frequentazione legava il poeta e scrittore Gabriele D’Annunzio (1863-1938) e Renato Brozzi (1885-1963), lo scultore traversetolese che per lui realizzava ogni sorta di oggetti preziosi.
D’Annunzio scrive a Renato Brozzi il 30 giugno 1931:
«Carissimo Brozzi, ti farò sorridere. Io sono un cupidissimo amatore del parmense Culatello (con una T o con due?). Esausto dalla malinconia operosa, dianzi sentivo i morsi della fame; e anche mi sentivo la struttura delle costole travagliata come il più fiero dei tuoi pezzi d‘argento, e pativo nella bocca dello stomaco il rostro d’una delle tue Aquile vendicatrici. Mentre gridavo non senza ferocia: “Subito, subito, subito tre fette di culat(t)ello!” La donna appariva coi tuoi pacchi preziosi. Il più grande aveva la forma conica della compatta cosa di fibra rossa e salata. O Fratelmo, l’allucinazione delle fame m’ha strappato un grido di riconoscenza e di felicità:“Brozzi! Un Culatello! E come ci ha pensato?…”. Pongo le mani sul pacco e sento il becco eroico dell’Aquila. Ti confesso che per un così bello e potente raggio di arte vera, ho dimenticato la delizia golosa. La donna di servizio, la Milia, potrà confermarti l’esattezza del mio racconto. Interrogala. Fin d’ora ti son grato del profondo pasto che porti al mio spirito (…) Perdona al delirio del Famelico in bellezza».
Gabriele D’Annunzio, Lettera a Renato Brozzi del 30 giugno 1931(Archivio del Vittoriale degli Italiani).
«I ricchi, sgargianti vassoi degli antipasti! Vi si vedeva il Salame di Felino, appetitoso e odoroso, l’originale e ghiotto Culatello, nel quale i parmensi ravvisano – e non a torto – un antico vanto della loro città, e le fette dei dolci prosciutti di Langhirano e di Vianino, e le belle cipolline sottaceto, frammiste ai famosissimi funghi di Borgotaro, e i minuscoli carciofini, conservati come i funghi in un olio insuperabile».
Giovanni Mariotti, La mia bella badessa, Roma, 1942.
«Per mangiare il culatello bisogna capirlo…
A tavola è un complimento, un lusso, come le ostriche, con una dolcezza che rammenta la polpa dei celebri molluschi, mentre il profumo, invece di essere marino, è fiumarolo e montanaro allo stesso tempo, tra la rosa e il muschio».
Giuseppe – Peppino – Cantarelli (1912-1992), intervista in Mario Soldati, Viaggio lungo la valle del Po alla ricerca dei cibi genuini, RAI, 1956.
«Si va a colazione in un’osteria di Ongina, nella “Siberia” nebbiosa vicino al Po. Entra la padrona e ci serve Culatello, tortelli, anguille fritte e una torta squisita, non di qua, forse di origine viennese. E si incomincia a parlare di cibi, del Culatello che matura solo in questo quadrato con centro a Zibello dove l’aria del Po è spessa e umida, buona per le muffe che conservano buona la carne priva di grasso: o dei salami dì Felino o dei prosciutti di Langhirano che invece vengono bene solo nell’aria secca delle colline o del grana, quello vero senza la formalina. Resisteranno i cibi squisiti alla produzione di massa?».
Giorgio Bocca, “Il Giorno”, 18 novembre 1962.
«- Vorrei mangiare qualcosa.
– Abbiamo del maiale arrosto tenerino, del cotechino freddo squisito.
– E prosciutto?
– Prosciutto no; abbiamo del culatello.
Nel nome di questa carne salata Quirico poteva rinnovar conoscenza colla ridanciana e salace e cordiale Emilia, grande allevatrice e macellatrice di suini».
Riccardo Bacchelli, Il Mulino del Po, Milano, Mondadori, 1963, vol. II, p. 89.
Alfredo Zerbini (1895-1955) accomuna il culatello al sapore della lingua parmigiana, alla necessità di esprimersi nel modo in cui si mangia, coi sapori del tempo trascorso, simile alla stagionatura del salame, della malvasia dei colli, del formaggio Parmigiano e della violetta:
«Epur in gir a gh’è soquant gabiàn,
di pit con l’elmo ch’ s’è miss in menta
che s’a ne s’dröva miga l’italian
ad bel, in poesia, a ne s’fa gnenta.
Mo ’t sa ch’an s’possa scrivver gnent ad bel
quand at rév l’alma e ’l cor in sta favela
ch’a sa ’d violètta, ad grana e ’d culatel?…».
Alfredo Zerbini, Tutte le poesie, Parma, Step, 1965, pp. 74-75.
Quando avevo un po’ di soldini andavo alla “Filoma” (la vecchia Filoma che io chiamavo la “maitresse della cucina”). Lì mangiavo, è vero, uno stracotto divino!… Sapete qualche volta ho sognato il Culatello e il vero Prosciutto. Sono andato in sogno, è vero, a mangiare a Sacca di Colorno. Non so dire però se era sogno o realtà tanto ho mangiato bene!
Cesare Zavattini, Telefonata gastronomica, in F. Sandroni e C. Corti, Nella capitale della gastronomia, Parma, 1979.
«Culatello e anolini mi hanno deliziato, ma perseguitato con il loro lessico un po’ equivoco: se andavo da amici in un altra città mi sfottevano, cos’è che mangiate a Parma, dai, ripetilo forte, Culatello e anolini: dovete essere tutti culi da quelle parti. E da allora che preferisco chiamarli cappelletti, anche se, più avanti negli anni, ho incontrato più rispetto per questi venerandi protagonisti della nostra favola».
Luca Goldoni, “Corriere della Sera”, 8 novembre 1986.
«E spiegava come il Culatello fosse la gemma del maiale, un prodigio della natura: per crescere bene dev’essere “messo a balia”, allo stesso modo di un neonato, nella nebbia del Po e nell’aria umida della Bassa Parmigiana. Basta un fosso di là, il Culatello nasce; di qua no».
Alberto Bevilacqua, La mazurka nella neve di Natale, in “Una misteriosa felicità”, Milano, 1988.
«Ho in mente un favoloso ristorante nella cui ala cercai rifugio dopo quella parentesi sublime [Duomo e Battistero]. Franai, pesavo molto, su una sedia che avrei preferito trovare impagliata di falasco. Mi sottrassi dapprima al lambrusco per goffa leziosaggine. Un Culatello fresco di taglio rosseggiava invitante come un prezioso marmo di Verona. Per un confronto ambizioso pretesi il Salame. Poi ancora Prosciutto. Poi un “sorbir” di agnoli nel quale il lambrusco, a torto provocato, sembrava sfrigolasse: il suo sorriso si rifece bonario solo quando accettai di mescerlo in un bicchiere degno. Venne poi l’estasi paesana del bollito. Per una pallida coscia di gallina delirai senza frivola enfasi quasimodiana. Mi imposi anche dure penitenze epatiche seguendo il lampeggiare sornione della coltella in uno stillante bianco-stato di manzo. Un peperone raggrinzito da lunghi stenti ollari m’aiutò a dissipare la sensazione del grasso misto, invero non più gradevole a quel punto. E finalmente l’oste-sacerdote scostò le tendine del Sancta Sanctorum per mostrarmi un ruvido sestogrado di Parmigiano. La coltella a cuore incise con religiosa attenzione la crosta da poco ripulita dalla morchia: subito il granito ocraceo della parete appena punteggiata di umili alveoli offrì di sé una scheggia sontuosa. L’oste-sacerdote incupì solo vedendomi armeggiare con il coltello: respirò invece di sollievo quando mi decisi a pinzare la scheggia con i fervidi polpastrelli del goloso. Lasciai Parma sopraffatto dalla beatitudine di essermi sempre sentito a casa. Mi portai dietro un ricordo ispirato dal piacere. Tutto quanto aveva espresso la terra parmense lo avevo accolto con la gradevole sensazione che non mi fosse estraneo, né per il gusto né per la cultura».
Gianni Brera, “La Repubblica”, 20 gennaio 1989.