Di Enrico Dall’Olio
Ospite in quasi tutte le case della pianura era, fino a qualche decennio fa, un “personaggio’’ singolare, che ben di rado usciva in libertà, se non per qualche scappatella fugace nell’aia, mentre la rezdora riassettava l’ambiente e gli preparava il pasto, un personaggio che, giorno dopo giorno, senza problemi di linea diveniva ben tondo, lucido, e, data la mole raggiunta, anche un po’ impacciato. Era chiamato in modo diverso, secondo il dialetto locale, dalla montagna, alla collina, alla pianura, ma era sempre lui: «al gugnai, al gozén, al gugiol …».
La sua breve avventura seguiva una parabola uguale dappertutto, a partire dallo svezzamento alla sistemazione nello “stabi”, dove rimaneva prigioniero, salvo qualche minuto di libertà per sgranchire le gambe, specialmente nella fase dell’ingrasso per evitare che avesse a buttarsi per terra.
Era alimentato, tra l’altro, con gli avanzi della cucina e con la risciacquatura delle stoviglie, quando le rezdore usavano al posto del detersivo, che screpola le mani ed inquina l’ambiente, l’innocua e valida crusca separata, stacciando, dal fior di farina per il pane e la sfoglia.
In orari precisi, l’interessato si premurava di ricordare all’allevatore distratto o in ritardo, col suo sempre più acuto grugnire e intaccando coi denti robusti l’uscio del porcile, il tempo della “zotta”. E, quando arrivava fumante e appetitosa, immergeva freneticamente il muso dentro l’“elbi” o il “paroeul” insieme con le zampe anteriori, col rischio, quando non erano cementati al muro, di rovesciare sul pavimento tutta quella grazia di Dio, senza placare l’insaziabile fame.
E così, pasto dopo pasto, sempre più abbondante, senza rendersene conto correva con ritmo accelerato verso il fatale traguardo della “Festa crudele”.
Fino a ieri, nei primi mesi invernali, sullo sfondo di un paesaggio dai lineamenti fiabeschi, composto dai malinconici velari di nebbia che puntualmente stazionavano nei campi immersi nel sonno stagionale, si animava un gruppo di uomini, le maniche rimboccate, stivali ai piedi, grembiuli di bucato ai fianchi, tra fuochi vivaci e paioli d’acqua bollente, armeggiando con coltelli affilatissimi, consapevoli del ruolo da svolgere ed attenti ai cenni del regista dell’insolito spettacolo: «al masén».
È questa una categoria di artigiani, un tempo assai consistente, specialmente nella Padania, che vede assottigliarsi le sue fila ogni anno di più. In genere erano bonaccioni e allegri e si tramandavano l’arte di padre in figlio: il ragazzo, terminate le elementari, era già pronto per seguire il genitore nella duplice funzione di aiutante ed apprendista. La curiosa attività dava modo di impegnare fruttuosamente il tempo libero dal lavoro abituale, infatti i norcini della Bassa erano per lo più falegnami, muratori, braccianti che d’inverno sarebbero rimasti disoccupati per il freddo. Il periodo di maggior impegno andava da ottobre a tutto febbraio, comunque i migliori risultati si ottenevano in ottobre-dicembre verificandosi una “fioritura” diversa nel salume, di cui si parlerà più avanti. Anche nell’iconografia è riservato ai norcini un posto di primo piano assieme alle loro vittime. Figurano, infatti, in codici miniati di età carolingia, genere di raffigurazioni che ebbe enorme fortuna per tutto il Medioevo e che l’arte romanica ripropose all’attenzione di migliaia di fedeli sui portali o nelle absidi delle cattedrali, con il fresco linguaggio delle sculture, dei dipinti, dei mosaici.
Tra questi, una formella fissata nel sottarco del protiro del Duomo di Parma (novembre) immortala i due personaggi chiave della scena, il norcino e il maiale, ed esalta l’antichissima usanza della Padania. Parimenti nell’abside della Cattedrale di Fidenza viene proposta con immediatezza l’azione del norcino in fase già avanzata con gli evidenti risultati ottenuti, vale a dire gli insaccati. Anche l’arte musiva dimostra la dimestichezza con l’arte delle carni insaccate: infatti la scena risulta nel pavimento della Basilica di San Savino a Piacenza e nella Chiesa di San Colombano a Bobbio, mentre lo stesso tema è sviluppato da un Codice (n. 65 dell’Archivio Capitolare del Duomo di Piacenza), preziosa opera miniata, se pur mutila in alcune sue parti.
Ma torniamo al fianco del “massén” della Bassa, che, muovendosi con destrezza tra i vari “osvì” occorrenti, tra il lingueggiare delle fiamme sprigionate dal “fogon” e il ribollire fumoso dell’acqua nella “caldèra” ha effettuata la rasatura dell’animale. Dissanguato e divenuto candido come un lenzuolo di bucato, veniva issato sulla “forca” (due pali dritti conclusi da mi terzo orizzontale, munito di unicini). Entrava in funzione un coltello tagliente maneggiato con sicurezza per segnare sulla pelle il tracciato del taglio, dall’alto in basso come guida alla mannaia per ottenere due mezzene perfette. Secondo il linguaggio degli “addetti”: «al nimal al vén s’ciapè» diviso «in dò msén’ni o s’ciàpi» spaccando verticalmente in due «al filòn ’d la schina» dal codino alla testa compresa, L’operazione si concludeva con la raccolta del midollo spinale e del cervelletto. L’indomani, dopo che la carne si era raffreddata, si riprendeva l’opera eseguendo normalmente tre tagli: uno a livello della coscia, liberando «al parsùt con al castlèt», il secondo a livello del collo e il terzo era la parte rimanente.
Ed è proprio sul primo pezzo che puntiamo l’obiettivo. Infatti è dalla parte alta del prosciutto che si ricava il “principe” dei salumi della Bassa: il culatello, mentre dalla parte inferiore si ottiene il “fiocchetto”.
Dopo averlo modellato a forma di pera con la punta leggermente inclinata da una parte, si procedeva alla “consa” mediante una mistura ben calcolata di sale e pepe e, dopo un buon massaggio, i due culatelli insieme a 2 spalle, 2 sottospalle (preti), 2 coppe, 2 fiocchetti e 2 pancette, venivano calati in un bigoncio da vino (con il fondo coperto da uno strato di bottiglie per isolare i vari pezzi dal sale che sarebbe precipitato) uno sopra l’altro. Dopo quattro giorni di sosta in cantina dovevano essere girati per osservare il colore assunto e se un pezzo era molto più scuro degli altri, ciò indicava che «aveva tirato più del normale» e occorreva limitare la “concia”.
Trascorso altrettanto tempo, tutta la squadra tornava alla luce e le mani del “masén” perfezionavano l’opera.
La parte finale metteva in luce l’abilità del norcino con la rifinitura del “pezzo”, modellato in modo da stabilire un equilibrio tra la parte magra e quella grassa, e fissato con alcuni giri di corda, prima di procedere alla famosa “investitura”, con pelli, precedentemente rimaste a mollo in un mastello contenente vino ed acqua. L’“immaiadura” era una fitta rete di spago che ingabbiava strettamente il tutto.
Toma ora a proposito l’argomento delle “Investiture” e le varie supposizioni fin qui adottate, ma non rispondenti alla giusta interpretazione del disegno seicentesco del Mitelli. A motivarle è appunto il «Gioco di cuccagna che contiene le principali prerogative di molte città d’Italia circa le robbe mangiative».
È quanto mai significativo che il celebre artista abbia scelto, a rappresentare la “Parma tipica” del tempo, una rezdora con il fazzoletto annodato sulla nuca, mentre sostiene con delicatezza, tra le mani un involucro, se così si può chiamare, concluso da una corda per poterlo appendere. Sovrasta la scritta: «Investiture di Parma». Con questo l’artista mi pare abbia voluto dimostrare due cose: innanzi tutto di conoscere bene il linguaggio della Padania ed il significato preciso del vocabolo usato per indicare quelle parti del maiale, destinate alla stagionatura, che venivano rivestite. Il culatello, in particolare, godeva di una posizione privilegiata sugli altri pezzi, tanto che per la sua confezione si usava la pellicola più ampia e consistente.
Con tale preferenza, l’artista ha dichiarato implicitamente e in modo ufficiale che ai suoi giorni il culatello era il prodotto tipico per eccellenza di Panna; infatti il prosciutto non aveva ancora raggiunto l’attuale, invidiabile celebrità.
Non pensiamo pertanto che la vigorosa ed esperta rezdora del Mitelli portasse in mano una mortadella, ma sentiamoci onorati da quell’immagine che vuole esaltare il nostro glorioso prodotto padano. In più, questa mia affermazione trova riscontro in numerose Grida, in Calmieri ed Avvisi della Comunità Parmense. («Avviso per la notificazione delle carni suine salate e contrattazione all’ingrosso delle medesime». Parma, 21 aprile 1764. «Calmiero della carne porcina salata», Parma, 3 aprile 1776). In questi documenti ed in altri, risulta la voce “culatelli investiti” al prezzo più alto, pari a quello del “salame magro” stabilito in “soldi 38 per libra” “Investiture” sono tuttora chiamate sia dagli addetti ai lavori, sia dalla gente della Bassa; me lo hanno confermato tre qualificati norcini: Ernesto Lottici, Carlo Galli Devodier e Franco Cattani che mi hanno confidato le loro esperienze.
Al culatello era riservata tanta attenzione insieme con l’investitura più consistente e più idonea a proteggere la carne ed a favorirne la maturazione, cioè la “psiga”, la vescica del maiale. Per le coppe, invece, bastava un “linsol”, vale a dire una pelle ricavata dalla cucitura di tanti listelli di intestino.
Così “rifinita” tutta la squadra dei “dodici” alloggiava, per una trasferta di 20 giorni, in un locale arieggiato e asciutto e dopo tale villeggiatura, prendeva stabile dimora in una buona cantina. Ogni operazione veniva seguita dall’occhio vigile del rezdor, attento più che mai alla “fioritura”, considerata ottima se in bianco, preoccupante se in verde. A seconda del peso, il soggiorno, cioè il periodo di maturazione, durava dai dieci ai diciotto mesi, oggi il processo è accelerato e ridotto a sei-sette mesi.
Più che le parole, per definire le prerogative del “gran sovrano della Bassa”, basta l’espressione del volto e i gesti dei tre norcini, entusiasti e soddisfatti di quel sapore delicato, soffice e dolce accompagnato da un alone di profumo talmente penetrante che, sprigionandosi durante il taglio, riempiva tutta la casa. Ma anche gli occhi avevano di che gioire per quel color rubino, trasparente, che ogni fettina offriva loro con la caratteristica stellina di grasso al centro, larga quanto una noce, che sembra illuminarla come un piccolo sole.
La spiaggia felice o, se volete, il piccolo eden di delizie gastronomiche dove ha la residenza e regna il culatello, è una limitata fetta di terra padana proiettata verso il grande fiume, dove tuttora come in passato, si rinnova questo miracolo e si realizza questo capolavoro dell’intelligenza dell’uomo e dell’apporto ambientale. Veramente benemerita la gente della Padania, gelosa custode di una tradizione sì nobile e gustosa che le appartiene e che continua ad arricchire di nuove esperienze per offrire al mondo un prodotto unico, squisito e genuino che alimenti una festa universale e perenne: «Int la cà l’è ’na gran festa:
pu ’d la sagra, pu che ’n nos!
Culate!, e spali, e copa,
e po ’na sgarbagna d’os!».
Da: G. TRIANI, Elogio del Culatello. Il salume dei re tra storia, letteratura e gastronomia. Bologna, Grafis, 1992.