Le interviste impossibili – A cura di Giovanni Ballarini- Gabriele D’Annunzio esteta del Cula(t)tello

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Nella fiaschetteria toscana Beltramme a Roma, in via della Croce, in tempi diversi luogo di ritrovo di artisti e letterati tra i quali Giovanni Papini (1881-1956), Ardengo Soffici (1879-1964), Giuseppe Ungaretti (1888-1970) e Vincenzo Cardarelli (1887-1959), incontro nel 1954 lo scultore, incisore e orafo Renato Brozzi (1885-1963) che ha appena partecipato alla Biennale di Venezia. Durante una cena tra il toscano e il romano Brozzi mi dice che in un qualche momento della sua vita abbandonerà Roma per ritirarsi nel suo paese natale, Traversetolo nel parmense. Da qui iniziamo a parlare di cibi parmigiani e soprattutto dei culatelli, che si dice lui procurava a Gabriele D’Annunzio (1863-1938).

Caro Maestro, per quale motivo Lei che è uno scultore procurava a un poeta un salume peraltro poco noto?

È una lunga storia che inizia tra il 1918 e il 1919 quando a Venezia dono a Gabriele D’Annunzio una targa e in sua presenza consegno al generale Armando Diaz una spada d’onore da me modellata su disegno di Ettore Tito (1859-1941). Da qui inizia una grande amicizia e collaborazione che continua fino alla morte del Poeta e Comandante nel 1938. In questi lunghi anni svolgo quasi tutta la mia attività su sua commissione, spesso sviluppando anche sue idee. In particolare quando nel 1921 D’Annunzio si stabilisce al Vittoriale e mi chiama “eccelso animaliere” mi chiede di preparare piccoli oggetti, figurine, spille, scatole, … decorati di preferenza con animali per donarli ai suoi ospiti, ma anche coppe per premi, targhe d’onore, oggetti d’oreficeria e soprattutto la Tartaruga Cheli, abitante dei giardini del Vittoriale, a cui dopo la sua morte, rifeci in bronzo testa e arti, consegnata nel 1928 e collocata dal Poeta proprio nella sala da pranzo a capotavola. In tutto questo periodo ho un’assidua frequentazione con Gabriele D’Annunzio e conosco anche i suoi gusti alimentari, giungendo a convincermi che tra tutti i salumi solo il Culatello è adeguato al suo stile di vita e soprattutto alla sua sensibilità artistica.

Prima di parlare del Culatello, com’è D’Annunzio a tavola e qual è il suo rapporto con l’alimentazione?

Come in tutte le altre sue attività umane, amori compresi, anche in alimentazione D’Annunzio è un onnivoro, fondamentalmente goloso e amante della buona cucina, attento alla linea e a non compiere atti a tavola che potevano risultare volgari o privi di raffinatezza. I gusti gastronomici di D’Annunzio sono semplici ma eleganti con una forte predilezione per carne, in particolare le cotolette, uova, in particolare le frittate e i dolci, anche se quelli esotici, i vini speciali, i cioccolatini, i frutti rari, i bonbon sono destinati ai riti di seduzione delle belle ospiti. Diffuso è il mito, forse un po’ alimentato da lui stesso, che consuma i pasti da solo considerando l’atto del mangiare volgare e non idoneo ad un uomo raffinato, ma è noto che fin da giovane, nei suoi esordi nell’alta società romana, partecipando a feste o ricevimenti non beve e non consuma cibo, per rimanere sempre lucido e raffinato. In privato, sregolato nella vita lo è anche nel cibo e nel modo di alimentarsi, è senza orari, regole precise o rispettate. Mangia quando ha fame cambiando orari e abitudini lasciando biglietti di disposizioni alla cuoca Albina, con la quale ha un rapporto particolare, diverso da qualsiasi altra donna. Albina Lucarelli Becevello (1882-1840) o Suor Albina o Suor Intingola, come lui la chiama, è la cuoca del Vittoriale, che conosce D’Annunzio nel primo dopoguerra e al suo servizio lo segue a nutrirlo e coccolarlo, a capo di un drappello di domestici e domestiche, fino alla morte del poeta nel 1938. Per il Vate – o Comandante – il Culatello ha un insieme di caratteristiche che ne fanno l’alimento a lui più congeniale, perché un prodotto carneo di altissima qualità e sempre pronto per essere gustato in ogni momento e occasione.

Nel passato e in questi tempi (siamo nel 1954) Parma è nota per il formaggio Parmigiano e per il suo Prosciutto, soprattutto di Langhirano, ma non per il Culatello. Caro Maestro, di che cosa si tratta?

Non mi meraviglio che il Culatello non abbia una larga notorietà, anche se questo salume è conosciuto e soprattutto apprezzato e ricercato dai più attenti gastronomi. Da millenni in ogni parte del mondo con clima asciutto le spalle e soprattutto le cosce del maiale e di altri animali sono conservate con il sale, mentre questo è quasi impossibile – se non usando moltissimo sale – in ambienti umidi e nebbiosi quali sono quelli delle terre parmensi vicine al Po. Ben conosco questo, io che sono nato e cresciuto a Traversetolo, nel basso Appennino parmigiano terra propizia al prosciutto. Nelle basse terre parmigiane da secoli si riesce però a conservare la parte carnosa della coscia di grandi maiali (culatta) con poco sale, rivestendola con la vescica animale e già nel XVIII secolo si parla di “Presutto senz’osso, o sia Culatelli”. La data ufficiale di nascita del Culatello è fatta risalire al 1735 o al 1764, quando nei calmieri inizia ad essere inserito il “Culatello investito”, ovvero rivestito da una vescica. Nel 1805 nel Ducato, per volontà di Napoleone Bonaparte amministrato da Médéric Louis Élie Moreau de Saint-Méry (1750-1819), questi scrive che “Si chiama Culatello la carne pregiata delle culatte del maiale che si mettono intere nei budelli, ciò che li fa chiamare Culatelli investiti”. A questo punto mi permetto una breve digressione ricordando che Gabriele D’Annunzio si chiedeva se la giusta denominazione di questo salume non sia quella di “Culattello”, con due “T” in quanto derivante da “culatta” e non da “culo”.

Il Culatello è un salume d’altissima qualità e nella prima metà del XIX secolo la duchessa di Parma, Maria Luisa d’Asburgo-Lorena (1791-1847) acquista i Culatelli investiti che hanno un prezzo di circa il 25% maggiore del salame magro e del 57% maggiore del prosciutto stagionato. Secondo una consolidata tradizione, nelle terre basse vicino al Po, nel periodo tra ottobre e febbraio e quando il territorio è coperto dalla nebbia e dal freddo, la parte di carne ricavata dalla coscia dei suini adulti è privata dalla cotenna, sgrassata, disossata, rifilata a mano dandole la caratteristica forma “a pera”. Dopo avviene una saggia salatura e la cosiddetta investitura, cioè l’insaccamento del salume nella vescica del suino, e la legatura con lo spago. Segue la stagionatura in cantina che accompagna il Culatello dalle nebbie invernali all’afa estiva, per arrivare sulle tavole l’inverno successivo nel pieno delle sue più originali qualità di sapore. Gli inconfondibili profumi e sapori rendono famoso il Culatello. Al taglio si presenta morbido, di colore rossastro, quasi rosato, alternato dalle strisce bianchissime delle parti grasse, con un gusto dolce, fragrante e delicato, con sentori che sfumano tra la rosa e il muschio.

Caro Maestro dalla sua descrizione comprendo come il Culatello si adattasse perfettamente al carattere di Gabriele D’Annunzio, ma come avvenne l’incontro tra i due?

Ricordo benissimo che al Vittoriale, a tavola e parlando di maiali, il Comandante e io arriviamo a discutere se deve essere più sviluppata la parte anteriore della spalla come nel cinghiale o quella posteriore della coscia come negli odierni animali domestici. Io sostengo che dalla coscia non si ottiene solo il Prosciutto ma il prelibato Culatello. Per confermare la mia tesi, tramite le mie conoscenze parmigiane e gli Spigaroli di Polesine, già norcini di Giuseppe Verdi (1813-1901), gli invio due grossi ed eccellenti Culatelli e Lui mi ringrazia qualificandosi “cupidissimo amatore del parmense Culatello”. Di tanto in tanto io gliene procuro altri, perché il Culatello, tra i tutti i salumi e le carni, è quello che più si confà al carattere estetico del Comandante e al suo stile di vita e alimentazione.

Lettera di Gabriele D’Annunzio a Renato Brozzi, 30 giugno 1931

«Carissimo Brozzi, ti farò sorridere. Io sono un cupidissimo amatore del parmense Culatello (con una T o con due?). Esausto dalla malinconia operosa, dianzi sentivo i morsi della fame, e anche mi sentivo la struttura delle costole travagliata come il più fiero dei tuoi pezzi d’argento, e pativo nella bocca dello stomaco il rostro d’una delle tue Aquile vendicatrici. Mentre gridavo non senza ferocia: “Subito, subito, subito tre fette di Culat(t)ello!” La donna appariva co’ tuoi pacchi preziosi. Il più grande aveva la forma conica della compatta cosa di fibra rossa e salata. O Fratelmo, l’allucinazione della fame m’ha strappato un grido di riconoscenza e di felicità: “Brozzi! Un Culatello! E come ci ha pensato?…”. Pongo le mani sul pacco e sento il becco eroico dell’Aquila…Ti confesso che per un così bello e potente saggio di arte vera, ho dimenticato la delizia golosa. La donna di servizio, la Milia, potrà testimoniarti l’esattezza del mio racconto. Interrogala. Fin d’ora ti son grato del profondo pasto che porti al mio spirito (…) Perdona al delirio del Famelico in bellezza».

Lettera di Renato Brozzi a Gabriele d’Annunzio, 3 giugno 1935

«Mio Carissimo Comandante,

penso anche sarà già a conoscenza del contesto dei pacchi. Il più leggero mi è stato consegnato a Roma da Donna Maria prima della partenza; e mi auguro che non abbia trovato cocci. Il più voluminoso cioè il Culatello parmense, mi è stato consegnato per lei dal Comm. Dott. Cesare Corbellini di Pieveottoville di Parma – vicino al Po – che pur sapendo di Latino, si appassiona con tutte le regole a questa produzione straordinaria».